Si fa presto a dire “SIMULTANEE”. Le cure palliative “integrate” nel mondo che cambia
Chi si occupa di cure palliative da un po’ di anni ricorderà che già nella prima edizione del 1993 dell’Oxford Textbook of Palliative Medicine era descritto il passaggio dalle cosiddette “cure attive” (all’epoca per lo più oncologiche) alle cure palliative non più come una successione di blocchi ma come una linea obliqua in cui i palliativisti erano considerati fin dall’inizio del percorso, prendendo un ruolo via via più rilevante nel decorso della malattia. Per molti anni però quell’intuizione è rimasta inattuata, se non nelle generiche “terapie di supporto” per il controllo degli effetti collaterali di chemio e radioterapia (1).
È stato sul finire degli anni ‘90 e soprattutto all’inizio del nuovo secolo che la riflessione si è fatta più ampia e strutturata. Dapprima in ambito oncologico, precedendo in questo l’evoluzione dei modelli di cure palliative che in quegli anni si caratterizzavano anche a livello legislativo come “cure del fine vita”, è emerso quanto i momenti di maggior sofferenza, anche fisica, dei malati siano quelli legati alle “fasi di passaggio” (dalla diagnosi all’attesa dei trattamenti, nei momenti di cambio di strategia con le diverse linee di terapia, nel passaggio più difficile, cioè quello in “non c’è più indicazione a ulteriori trattamenti specifici” e viene posta “l’indicazione esclusiva a cure palliative”).
Si può dire che il desiderio di integrarsi maggiormente con i servizi di cure palliative nasca in quegli anni anche dalla “sofferenza” degli oncologi nel dover gestire da soli una fase tanto delicata. Particolarmente accurato, nella descrizione delle problematiche che rendono difficoltoso il passaggio dalla sospensione del trattamenti alla presa in carico dei bisogni globali della persona in fase avanzata di malattia, il lavoro di Peppercon del 2011 (3) che evidenzia i “punti critici” per gli oncologi e l’importanza di un’integrazione precoce con i palliativisti:
Negli stessi anni comincia ad aprirsi anche nel mondo delle cure palliative un dibattito sulla possibilità di integrarsi più precocemente nei percorsi di cura. “La storia di Tom”, raccontata da Bruera in un articolo pubblicato sulla principale rivista oncologica mondiale (4) è emblematica: un giovane uomo, a cui 6 mesi prima è stato diagnosticato un carcinoma del pancreas, dopo tre linee di chemioterapia e costante peggioramento, viene infine indirizzato a una “consulenza” con i palliativisti. In tre settimane, viene da prima controllato completamente il dolore, poi attivata una presa in carico continuativa del paziente e della famiglia, condivisa la scelta di interrompere la chemioterapia, garantita la possibilità di trascorrere almeno gli ultimi giorni di vita libero dai sintomi e a casa, con i suoi familiari, supportato dall’èquipe. La sua domanda “Perchè non vi ho conosciuti prima?” diventa lo stimolo a una riflessione su modelli diversi di cura, in cui i palliativisti e gli oncologi possono integrarsi anche nelle fasi iniziali delle patologie a prognosi peggiore e costruire percorsi condivisi. Nello stesso articolo il modello nascente è illustrato con la metafora di un viaggio in automobile: con un approccio tradizionale (“andrà tutto bene”) si parte senza gomma di scorta, senza controllare l’olio, senza conoscere bene la strada; con l’approccio dell’integrazione precoce (“speriamo vada tutto bene, ma prepariamoci agli imprevisti”) si curano tutti i particolari e i sistemi di sicurezza. Nel primo modello, un viaggio travagliato, con buche, incidenti, partenze sempre più difficili (cioè sintomi, ricoveri in Pronto Soccorso, sofferenza e paura, spesso decesso in Ospedale al termine di una cascata di “urgenze”); nel secondo modello, gli stessi sintomi, gli stessi eventi avversi, le stesse paure, ma un decorso più sereno per la sicurezza di avere sempre un riferimento e -nei momenti più difficili- la presa in carico completa da chi già si è conosciuto in altre fasi. Altre metafore utilizzate anche di recente per illustrare le cure palliative simultanee: “sono i pompieri, non sono l’incendio”; “sono l’ombrello che si spera da tenere chiuso, ma che ci fa star meglio se si può aprire subito allo scoppiare di un temporale improvviso” (5).
Uno storico lavoro sempre di quel periodo (2010) di Temel segna una svolta decisiva. Si tratta di uno studio di confronto fra due gruppi di pazienti affetti da carcinoma del polmone in fase avanzata ancora in corso di chemioterapia (2). Il primo, seguito in modo tradizionale (gestione completa degli oncologi, con possibilità “a chiamata” di consulenze dei palliativisti). Il secondo gruppo, seguito in modo “sperimentale” (sin dalla presa in carico, basato sulla programmazione di regolari visite palliativistiche con possibilità di presa in carico congiunta). Dai risultati emerse un dato per certi versi sorprendente: se infatti poteva essere atteso (e fu confermato) un miglioramento complessivo di qualità di vita, sospensione più tempestiva della chemioterapia, minor numero di accessi in pronto soccorso e maggior numero di decessi a domicilio o in hospice, il dato che fece scalpore fu che i pazienti seguiti con cure palliative “simultanee” erano vissuti mediamente tre mesi in più rispetto ai componenti dell’altro gruppo. Semplificando un po’, si può comunque dire che il lavoro della Temel abbia smentito il luogo comune per cui le cure palliative si preoccupano della “qualità” e non della “quantità” di vita e confermato che “non si muore di morfina”, ma si può “morire prima del tempo” per sintomi non controllati o per eccessi terapeutici.
A partire dalla fine del primo decennio degli anni 2000 il tema dell’integrazione (con lo sviluppo dei concetti di cure palliative simultanee e cure palliative precoci) è diventato sempre più riconosciuto, trovando un peculiare ambito di applicazione nelle patologie cronico-degenerative cosiddette “non oncologiche”, per le caratteristiche delle curve di decorso spesso di lunga durata nel tempo e con fasi di acutizzazione e stabilizzazione spesso imprevedibili. Molti lavori di ambiti specialistici diversi (9-10-11-12-13) hanno sancito che le moderne cure palliative devono integrarsi su tre diversi piani: di base (competenze necessarie a tutti gli operatori); simultanee (integrazione “fianco a fianco” con le altre discipline mediche); specialistiche (presa in carico globale dei bisogni complessi evolutivi nell’ultima fase della vita).
Su quest’onda, non si può negare che il termine “simultaneous care” sia a volte diventato anche un’espressione “di moda”, un cartello da esporre sulla porta di un ambulatorio o un fregio su una carta intestata. Una visita occasionale o “su chiamata” in un ambulatorio dedicato per poche ore alla settimana rappresenta infatti un servizio importante e utilissimo nel momento del bisogno, ma non può essere preso come esempio di cure palliative simultanee, integrate, precoci. Proprio la Temel, perfezionando e ampliando il suo primo lavoro (8) e Maltoni in una fondamentale ricerca multicentrica su scala italiana (6-7) hanno esplicitato le caratteristiche per cui si può parlare di “vere” cure palliative integrate.
Ne riassumiamo per concludere i punti che non dovrebbero mancare per poter definire un servizio di “cure palliative integrate simultanee e precoci”:
tale se in grado di assicurare l’attivazione tempestiva della rete socio-assistenziale e se in
grado di garantire il passaggio alle cure palliative territoriali attraverso un contatto diretto
con il MMG, le UOCP e gli Hospice;
cure) e pertanto non può durare meno di 45 minuti (10-11).
Servizi, risorse umane, formazione: la strada, probabilmente, è ancora lunga (ma ne vale la pena).
Riferimenti per approfondire
Articolo a cura del Dott. Ferdinando Garetto