Le attribuzioni di senso nell’esperienza del caregiving e del lutto

Le attribuzioni di senso nell’esperienza del caregiving e del lutto.

La cura delle relazioni dentro la cornice delle biografie familiari

 

Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,
ogni famiglia infelice è infelice a suo modo
.

(Lev Tolstoj, Anna Karenina 1877)

 

  1. Introduzione

La morte e il morire vissuti dentro un servizio specializzato di cure palliative si definiscono all’interno di traiettorie di “senso” che possono essere raccolte e raccontate, cercando dentro le parole dei protagonisti nuovi orientamenti e trame di significati ispiratori per l’evoluzione delle culture sanitarie. Queste ultime si confrontano con la fragilità dell’esistenza umana colta nel suo limite estremo della morte, costruendo quella dimensione che oggi connota il mondo delle Cure Palliative: un mondo variegato che si esprime dentro un confine culturale ormai chiaro e ben delineato.

Il presente contributo nasce da un’indagine qualitativa sui caregiver e sui processi di ricostruzione del senso dell’esperienza del processo di accompagnamento del malato e dei suoi risvolti sulla successiva fase di elaborazione del lutto. Il materiale qui esaminato – che costituisce una prima e parziale elaborazione di una indagine più ampia in corso, e che è stato selezionato in ragione della sua eloquenza rispetto all’oggetto di questo articolo – proviene infatti dalle parole di caregiver che hanno avuto accesso al servizio di supporto al lutto dopo aver utilizzato il servizio di assistenza domiciliare e/o gli hospice della Fondazione Faro (Torino).

Raccogliendo un insieme di storie di vita, di malattia e di perdita, eterogeneo dal punto di vista delle caratteristiche delle famiglie che ne sono protagoniste, il gruppo di lavoro si è proposto di esplorare i processi di attribuzione di senso che prendono forma durante l’elaborazione del lutto, e che possono essere identificati, facilitati e supportati lungo tutto il percorso assistenziale, dagli psicologi in primo luogo (in qualità di specialisti della gestione delle dinamiche intrapsichiche, individuali e familiari) e da tutti gli altri operatori che, attraverso una maggiore comprensione di ciò che accade, possono adoperarsi per attivare la migliore personalizzazione di ogni assistenza.

La presa in carico della famiglia come soggetto al centro della cura, accanto alle dimensioni sanitarie consuete dell’assistenza al malato, attiva una “cornice” entro la quale approfondire le specificità delle “famiglie infelici”, come nella citazione di Tolstoj in incipit. La cornice proposta si pone in una prospettiva di cura delle relazioni dei nuclei familiari, in particolare quando sono più fragili e complesse, per la migliore individuazione e il sostegno delle eventuali criticità presenti, nell’ottica della personalizzazione dei programmi di assistenza e dedicando attenzione particolare alla visione prospettica finalizzata alla protezione del lutto dei superstiti.

Il contributo coniuga il metodo della biografia familiare, qui inteso come risorsa e strumento di lavoro per le équipe, e la dimensione narrativa, di attenzione e ascolto delle storie familiari oltre che individuali, dimensione che costituisce una competenza sempre più evoluta e una buona pratica imprescindibile della cultura delle cure palliative.

La conoscenza della famiglia e delle sue specificità, la sua storia, i cambiamenti di funzioni e di ruoli, la presenza di soggetti fragili come bambini, ragazzi o altri malati, la conflittualità interna, gli adattamenti ai cambiamenti indotti dalla malattia, sono alcuni degli elementi che costruiscono la “cornice” messa in comune nell’equipe di operatori, allo scopo di orientare il programma di assistenza in modo mirato e personalizzato.

 

  1. Materiali e metodi: La rilevanza delle storie

 

Per mezzo della narrazione, come osserva Rita Charon, “ordiniamo cronologicamente i fatti, stabiliamo un inizio, una parte centrale e una fine, creando rapporti di causa ed effetto attraverso la trama. Ascoltiamo o ricordiamo miti, leggende, aneddoti, romanzi, testi sacri. Cerchiamo collegamenti per mezzo delle metafore e del linguaggio figurato. Raccontandoci attraverso i diari e i sogni, nelle amicizie e negli amori, durante le sedute dall’analista, non solo conosciamo meglio chi siamo, ma lo diventiamo anche. Realizziamo attività fondamentali dell’esistenza come accettare gli altri e noi stessi, rimanere in contatto con le tradizioni, dare un senso agli eventi, rendere omaggio ai nostri legami”1. A partire da queste suggestioni, questa indagine ha operato un lavoro di raccolta di storie, personali e familiari, di malattia e di perdita, di rotture e di ricongiungimenti, cercando di valorizzare le esperienze specifiche dei caregiver che vi hanno partecipato, sostenendoli nel lavoro complesso ed emotivamente denso di metterle in forma attraverso la parola.

L’indagine si è concentrata complessivamente sulle storie di 22 caregiver, raccolte attraverso interviste discorsive realizzate ad hoc (10) e cartelle cliniche relative a prese in carico psicologiche in cui si evidenziasse l’esperienza completa della assistenza e della attribuzione di senso durante l’elaborazione del lutto (12). La scelta delle cartelle cliniche da includere nell’analisi è stata guidata dalla completezza della biografia familiare raccolta nel corso di presa/e in carico che hanno avuto un tempo sufficiente per la conoscenza approfondita e per la costruzione di un programma assistenziale mirato alla famiglia, coerentemente con gli obiettivi conoscitivi dell’indagine qui proposta.

Il campione è stato costruito garantendo una eterogeneità per ciò che riguarda l’età dei caregiver, il grado di parentela con il malato (coniuge, genitore, figlio/a) e il contesto entro il quale il malato e la sua famiglia hanno fatto ricorso alle cure palliative della Fondazione Faro (in hospice, a domicilio o entrambi). Nella totalità dei casi, il racconto dei protagonisti è stato sollecitato dopo la morte del malato e dopo che i caregivers hanno utilizzato, per almeno due mesi, lo spazio del supporto al lutto (“Faro Dopo”) previsto dalla Fondazione Faro a sostegno del processo di elaborazione dei vissuti relativi alla separazione e alla perdita2.

Queste scelte metodologiche hanno permesso di prendere in esame un ventaglio di situazioni eterogenee e di approfondire alcuni contenuti rilevanti, raccogliendo innanzitutto un’accurata descrizione delle famiglie e degli adattamenti familiari al percorso di malattia in cui sono stati presenti, nell’equipe multidisciplinare, gli psicologi.

Nell’approccio ai materiali narrativi abbiamo scelto di approfondire e delineare “ritratti” familiari di situazioni eterogenee che raccontassero quanti adattamenti e quante trasformazioni possa innescare l’esperienza della malattia e del lutto, in quanti contesti possa prendere forma e con quali esiti, talvolta sorprendenti per la capacità delle famiglie di usare la preziosità del tempo del fine vita per recuperare legami lacerati o interrotti, o per vivere l’esperienza del fine vita dentro significati trasformativi. I contenuti, qui citati previo consenso dei protagonisti, utilizzano degli pseudonimi a tutela dell’identità di chi ha accettato di condividerli.

 

  1. Elaborazione dei Risultati: Traiettorie e direttrici esperienziali delle famiglie

 

Le famiglie che accedono ai servizi di Cure Palliative chiedono accoglienza, orientamenti e supporti utili a gestire le vicende che cambiano le loro esistenze; il nostro ruolo e la nostra competenza non possono prescindere dalla consapevolezza del valore intrinseco e pregnante di questo compito.

Il peso e le conseguenze della gestione di eventi di impatto nella vita delle persone ci interrogano e ci chiamano, come operatori, alla responsabilità di potenziare la nostra competenza dei “fatti umani”3, nello sforzo di un operare che accetti di aprire la conoscenza su dimensioni ampie che comprendano, usando le parole di Sonia Ambroset, una valenza anche “antropologica ed esistenziale prima ancor anche sanitaria […] senza paura e con profonda saggezza”4.

La definizione di Sandro Spinsanti sulla medicina narrativa5 individua l’attenzione alle storie come strumento centrale per la personalizzazione dei programmi di assistenza della famiglia e aderisce interamente alla radice dell’approccio psicologico che si esprime nella realtà operativa della Fondazione Faro, in cui l’approfondimento dello sguardo sui legami affettivo-relazionali e l’individuazione delle “infelicità” famigliari distanzia dalle omologazioni consuete e colloca la cura delle relazioni dentro la cornice della biografia familiare nella delicata fase della fine della vita.

La biografia familiare, che rappresenta per l’appunto il cuore del presente contributo, si coniuga con l’analisi delle cosiddette “bereavement narratives6, ovvero le narrazioni del lutto elaborate a seguito della perdita di una persona cara. Tali narrazioni rappresentano non solo una preziosa risorsa per restituire senso e ordine a una fase di incertezza e di doloroso disorientamento, ma un vero e proprio strumento terapeutico utile a condividere e dunque affrontare il proprio dolore. In questo senso, come affermato da Irvin Yalom7, lo psicoterapeuta nel contesto clinico sostiene la persona sofferente nel suo farsi “narratrice della propria vita”, attraverso un atto comunicativo che socializza un dolore altrimenti individuale. Nel lavoro psicologico clinico col caregiver superstite è possibile favorire quella riappropriazione personale di senso che conduce verso un processo trasformativo.

Tra i contenuti più significativi del materiale raccolto, si evidenzia come l’esperienza del percorso di inguaribilità e di fine della vita possa creare nella vita delle famiglie due direttrici esperienziali opposte: da un lato, può condurre verso una dimensione di conferma e di rafforzamento dei legami affettivi, o consentire un recupero di legami lacerati laddove la malattia diviene un’occasione per “ritrovarsi” e ricostruire legami, in un tempo di vita diverso, interrotti; in altri casi, all’opposto, l’esperienza di malattia può potenziare conflittualità preesistenti sopite o in equilibrio precario, che sotto la spinta dello stress psico-emotivo relativo alla situazione specifica e della destabilizzazione che spesso ne deriva, si innescano. In questi nuclei disfunzionali la conflittualità induce turbamento e lacerazione dei legami familiari con strascichi tragici nel lutto, aggiungendo nella vita dei sopravvissuti, alla separazione imposta dalla morte del familiare, impegnative e spesso dolorose separazioni “altre”.

Queste ultime rappresentano in genere gli interventi più impegnativi per gli operatori, sia per il rischio di essere invischiati dentro gli schieramenti e i conflitti interni alla famiglia, sia perché si richiede uno sforzo accurato e continuo di lettura e rilettura delle dinamiche familiari per costruire risposte e supporti specifici rimodulando il progetto di assistenza. Nelle situazioni di fragilità psicologica e psicosociale, l’attivazione di numerosi supporti ad hoc per attenuare i carichi del caregiver e sostenere gli altri soggetti fragili della famiglia (ad esempio, bambini, ragazzi o altri malati) implica l’attivazione di una rete di protezione volta a contenere e ridurre la conflittualità interna presente in questi nuclei. Gli atteggiamenti e la lettura della “cura delle relazioni familiari” da parte degli operatori orientano la conduzione verso traiettorie più adattive, nello sforzo di arginare le spinte che danneggiano i legami rendendoli talvolta irreparabili.

La responsabilità specifica dello psicologo a questo riguardo è anche quella di mettere in atto un intervento preventivo di individuazione dei segnali predittivi di lutti complicati o patologici, al fine di effettuare un lavoro di protezione del “dopo” che agisce, con lo sguardo in avanti, nel “prima” della dinamica assistenziale.

Nei paragrafi che seguono diamo conto delle due traiettorie centrali individuate attraverso l’analisi del materiale narrativo raccolto – quella dei legami che si lacerano e dei legami che si rinsaldano – raccontando e citando alcune delle storie raccolte, più eloquenti nell’evidenziare i tratti salienti delle traiettorie descritte.

 

3.1. I legami che si lacerano

La storia di Tino

Tino ha trentotto anni e due bambini. Il caregiver è la moglie, aiutata dai suoi due genitori. Sarà lei, che durante la breve assistenza domiciliare non ha accettato l’intervento psicologico, a raccontare la loro storia quattro mesi dopo il decesso del marito, accedendo al servizio di supporto al lutto “Faro Dopo” (si veda nota di chiusura n. 2) e chiedendo aiuto per sanare le “ferite” profonde e doloranti che hanno richiesto un intervento di psicoterapia per uno dei bambini. Il nucleo vive in una famiglia allargata impegnata in un’impresa di famiglia, in cui il piano affettivo e quello professionale si intrecciano in un difficile equilibrio. La conflittualità interna alla famiglia già presente da anni si accentua con le difficoltà economiche dell’impresa, trascinando la famiglia in un ulteriore dramma: quello della lotta interna. La situazione si trasforma in un enorme carico emotivo per il malato, oppresso dalle esigenze dei due fronti familiari: quella originaria e quella fondata da lui. In quegli stessi mesi Tino riceve la diagnosi di un tumore a prognosi infausta.

Durante le scene finali di malattia, la gestione in hospice viene proposta come tutelante sia per la famiglia tutta che per i due minori sovraesposti in casa a momenti di criticità clinica. L’impegno degli operatori sarà mirato al tentativo di ricondurre i protagonisti del nucleo all’equilibrio e ad una “tregua” del conflitto aperto, riconoscendo il peso e il dolore di ciascuno ma indicando un obiettivo di “cura” della famiglia e di protezione del malato. La famiglia riuscirà ad accettare una tregua momentanea. Nei mesi successivi alla morte del malato, si aprirà un contenzioso legale lacerante per le relazioni tra i due versanti della famiglia, che vedrà una frattura e una separazione. Il lavoro di sostegno durante l’elaborazione del lutto mirato alla moglie del malato e ai suoi due figli, con la ripresa del progetto di vita, verrà sostenuto dal servizio “Faro Dopo”, ma con una scissione dalla famiglia originaria del malato che risulterà insanabile.

 

 

 

La storia di Marco

Marco ha cinquantaquattro anni quando arriva nel nostro servizio ed è malato da due anni. Ha dei figli adulti da un primo matrimonio e due bambini di età prescolare avuti da una seconda giovane moglie con la quale ha vissuto un’intensa storia d’amore. La famiglia viene accolta nel servizio di psicologia per diversi mesi sia durante l’assistenza a domicilio che in hospice, nonché durante la prima fase del lutto.

Nel primo colloquio, l’uomo narra la sua storia familiare e riferisce la sua malattia come l’effetto della sua difficoltà a dividersi “tra due fuochi”, della battaglia tra i due tronchi della sua famiglia in contrasto tra loro: il conflitto tra la sua anziana e autoritaria genitrice e sua moglie, che divide e schiera anche i figli e gli altri familiari in un clima tossico per tutti. Purtroppo, tale conflitto non si placa neppure davanti al suo letto di morte, tanto da richiedere in diverse occasioni l’intervento degli operatori per abbassare i toni e invitare i familiari a turnare in modo esclusivo per creare intorno al malato il clima più sereno possibile, evitando i conflitti aperti.

La narrazione della biografia familiare condivisa tra gli operatori insieme ad un programma di cura delle relazioni consentirà di costruire una articolata presa in carico della famiglia con interventi psicologici mirati ai diversi componenti (il paziente, la seconda moglie, uno dei bambini, le due figlie giovani adulte, la madre) per consentire il contenimento della conflittualità accanto al riconoscimento delle specificità della sofferenza di ciascuno e di uno spazio di elaborazione.

Gli interventi di tutti gli operatori, supportati dall’intervento specialistico di guida dei diversi psicologi impegnati, si sono avvalsi della narrazione della biografia familiare come strumento di lavoro utile a cercare il migliore adattamento possibile e cercare la cura delle relazioni interne alla famiglia, nella logica multidisciplinare che contraddistingue il contesto delle cure palliative.

 

In entrambe queste famiglie – quella di Tino e quella di Marco – è stato possibile un intervento di contenimento delle dinamiche relazionali conflittuali, al quale la famiglia ha aderito in nome della proposta degli operatori di costruire una tregua, che si è poi lacerata dopo la morte del malato portando alla separazione dei gruppi familiari. Il supporto nel lutto ha cercato di mitigare il processo di divisione, nella logica di protezione dei bambini e dei ragazzi, ma non ha potuto evitarlo. In entrambe le famiglie descritte i bambini hanno perso, oltre al padre, anche un pezzo importante della loro famiglia di riferimento.

 

3.2. I legami che si rinsaldano

Il secondo tipo di storie individuato dalla nostra indagine è quello delle famiglie che fanno fronte comune per affrontare la crisi dell’esistenza creata dall’assistenza al malato, accogliendo la proposta del servizio di cure palliative di costruire un’alleanza famiglia-operatori per creare un clima di armonia che possa vedere il malato al centro del progetto di cura.

Quando i familiari riescono a lasciare sullo sfondo le difficoltà e gli eventuali sospesi rivendicativi, la malattia e la morte diventano un’occasione per approfondire, comprendere, recuperare e talvolta perdonare o ricucire gli strappi o i sospesi della trama familiare.

 

La storia di Marta

Marta arriva al servizio di “Faro Dopo” con un pianto ininterrotto di quasi trenta minuti, dopo il quale racconta della sua famiglia e della morte del padre:

Lui era un uomo burbero e poco capace di esprimere i sentimenti. La relazione con la mamma era stata molto conflittuale e difficile. Non ci vedevamo più da diversi anni quando l’ho rivisto malato, dopo la separazione e il suo nuovo matrimonio che andava a rotoli… I nostri rapporti si erano danneggiati… sembrava in modo irrecuperabile. Quando gli operatori ci hanno invitato a discutere se si poteva costruire un’alleanza per proseguire l’assistenza a casa come il malato chiedeva con forza, ci hanno detto in modo chiaro quale fosse la situazione, che cosa sarebbe accaduto nelle settimane a venire e che cosa noi fossimo disposti a fare… io e mio fratello abbiamo deciso quasi subito di accettare. Abbiamo ricordato anche aspetti belli della nostra infanzia con lui, lo abbiamo visto fragile e impaurito. Siamo stati arrabbiati per anni con lui ma ora, mentre stava affrontando la morte, abbiamo sentito che quella era comunque la nostra famiglia. Non potevamo voltare la faccia.

 

La famiglia di Marta viene messa di fronte in modo chiaro e onesto alla situazione del fine vita del padre. Nel dialogo con gli operatori i due figli accettano di dedicare quei mesi alla cura del padre e anche alla “cura” delle ferite della loro famiglia. A seguito della decisione di Marta e di suo fratello, il malato viene spostato nella mansarda nella villetta in cui il figlio vive con un bambino e sua moglie. Si crea una sorta di squadra di assistenza con turni e incombenze ripartite, che viene supportato e valorizzato dagli operatori. Durante i tre mesi di assistenza, la squadra diviene, oltre che efficiente, anche affettiva e “riparativa” in senso relazionale ed emotivo, capace di recuperare trame e legami, e ricompone la famiglia originaria in cui anche la prima moglie accetta di dare il suo aiuto. L’uomo morirà a casa, godendo anche della presenza del nipotino, che in alcuni momenti andrà in mansarda a visitare il nonno, portando il balsamo della riparazione e della speranza che la famiglia continui la vita.

 

La storia di Anna

Anna è una sessantaquattrenne in fase di aggravamento per un tumore avanzato, una donna descritta dagli operatori come consapevole, lucida e orientata, affettiva, materna e mite. Durante la malattia viene assistita dalla sua famiglia tutta intera: la figlia adulta con una nipotina viene a casa il fine settimana perché vive in un’altra città, mentre l’ex marito di Anna assiste la malata coinvolgendo anche il proprio compagno, che si mostra particolarmente tenero e affettivo con la malata.

L’ex marito appare depresso e tormentato. Ha conosciuto Anna quando erano ragazzi, e a un certo punto della loro vita ha scoperto la propria omosessualità, chiudendo il matrimonio per poterla vivere. Dopo anni di distanziamento i due hanno ritrovato un dialogo e la malattia di Anna, durata diversi anni, ha riaperto i ponti dell’affetto. La loro relazione, grazie anche alla presenza di mediazione e serenità della figlia adulta con un bambino e una famiglia felice, ha recuperato l’affetto che li aveva legati fin da ragazzi, in cui si erano sostenuti nelle difficoltà delle loro origini familiari per affrontare insieme la vita.

Anna chiederà con forza di essere assistita a casa, e la famiglia tutta sosterrà la promessa fatta con impegno e affidabilità. Anna accetterà anche il compagno dell’ex marito, costruendo con lui una relazione calda e affettuosa.

Dopo la sua morte, il servizio di psicologia riceverà sia l’ex marito che il suo compagno, trentaquatrenne segnato da sofferenza profonda e “stupito” egli stesso per la severità del suo lutto. La sua omosessualità ne ha segnato la vita familiare: il suo coming out, fatto a ventitré anni, ha “gelato” la sua famiglia di appartenenza da quel momento formale e imbarazzata, segnando dentro di lui l’impossibilità di appartenere ad alcuna forma di famiglia. Nella assistenza alla malata Anna, egli riferisce di essersi sentito profondamente accettato. La personalità materna e dolce della donna, la possibilità di vivere l’intimità dell’assistenza e la gratitudine della malata, gli hanno permesso di vivere una profonda esperienza affettiva, che l’uomo non aveva mai sperimentato. Struggente, nel loro racconto, è l’ultimo Natale trascorso insieme, compreso il nucleo della figlia con il nipotino della malata, tutti consapevoli della unicità di quel momento. Una storia rara che ci fa sperare nella possibilità delle famiglie di “rammendare” le lacerazioni della vita in modo intelligente, illuminato ed evoluto.

 

La storia di Marta, di Anna e delle loro famiglie ci sostengono nell’elaborazione di un programma di “cura” delle famiglie “infelici”, cioè quelle più complesse e problematiche in cui i legami si sono lacerati, e ci dimostrano come il tentativo di indicare un equilibrio talvolta anche solo nella “tregua” delle ostilità possa sostenere in un passaggio della vita cosi significativo come la morte e il morire di un membro della famiglia.

 

3.3. Il tempo prezioso, i segreti, i rimpianti

Una dimensione di senso che si mostra con forza nel campione dei ritratti familiari esaminati si riferisce alla consapevolezza della preziosità del tempo e alla necessità di vivere il commiato. Nei racconti, lo svelarsi nel contesto di fine vita di un “segreto” della famiglia è un elemento che apre scenari complessi che entrano nelle caratteristiche del commiato, rendendo il fine vita uno spazio e un tempo che può aprire il confronto su questioni sospese e verità nascoste fino ad allora.

La consapevolezza è intesa come un processo di informazione e di accompagnamento, di relazione e vicinanza ma anche di conduzione, guidata e sostenuta, dentro un territorio che contiene la complessità dell’incontro col limite e del confronto con la fine del tempo. La responsabilità professionale di chi conduce le famiglie indica percorsi e possibilità. L’imprescindibile competenza degli operatori a riguardo rappresenta il valore aggiunto di chi, attraverso l’ampiezza del proprio sguardo – reso tale da formazione ed esperienza – mette ogni giorno a disposizione di malati e famiglie la possibilità di un intervento ogni volta mirato e volto nella direzione del migliore adattamento possibile alla separazione e alla perdita.

 

La storia di Elena

Elena ha una relazione difficile col padre. Nella sua famiglia c’è poco dialogo e domina il silenzio. Lei ha scoperto attraverso un contatto arrivato dai social che suo padre aveva costruito una famiglia con altri figli prima di sposare sua madre, e il fatto di non averne saputo nulla la chiudeva in un risentimento muto e doloroso. Anni dopo, sull’orlo della separazione tra i suoi genitori e poco prima di venire a scoprire della malattia, Elena riesce finalmente a rompere il silenzio:

Vederlo abbattuto durante quell’estate… mi ha fatto scattare qualcosa dentro. Mi sono resa conto forse per la prima volta della sua vulnerabilità, della posizione di debolezza in cui si trovava all’interno della famiglia. Era solo sotto tutti i punti di vista, e questa volta non sono riuscita a ignorarlo. Gli ho scritto, piangendo su quel foglio le lacrime di sette anni. Gli ho scritto della mia rabbia, della mia difficoltà a comprendere le sue scelte, del bisogno di un confronto, ma al tempo stesso del desiderio di stargli vicino. Gli ho scritto, finalmente, che gli volevo bene.

 

A seguito della diagnosi, Elena racconta il percorso accanto al padre finalmente in relazione con lui. Quattro mesi intensi e difficili, ma anche un’occasione straordinaria e preziosa per ricucire ferite storiche, inclusa quella con la sorella della quale non aveva saputo a lungo dell’esistenza. Con le sue parole:

È durante quel primo ricovero che, all’insaputa di mia mamma, organizzo affinché mia sorella possa venire a fargli visita: è l’unico quarto d’ora che vede noi tre riuniti nella stessa stanza, un po’ in imbarazzo, sofferenti, ma al tempo stesso in confidenza. Quel giorno, per un secondo, mi è sembrato di veder cadere il muro che ci aveva divisi, e ho intravisto la famiglia che avremmo potuto essere e non siamo stati. Da allora mia sorella ha telefonato a papà spesso, è tornata a trovarlo più avanti in ospedale con sua figlia piccola, so che si erano accordati per andare a prendersi un caffè una volta che lui si fosse rimesso un poco… Mi chiedo spesso come sarebbero potute andare le cose se questo sforzo per ricucire i rapporti fosse stato fatto prima, se la mia rabbia fosse sbollita prima, se fossimo stati più bravi a comunicare, più consapevoli del tempo che passa.

 

Anche Marta, la cui storia è raccontata nel paragrafo precedente, accede al servizio di supporto al lutto dopo che la storia di malattia è conclusa. Le sue lacrime di figlia caregiver si mescolano al rimpianto e alla consapevolezza che il linguaggio affettivo è stato ritrovato dalla sua famiglia nell’esperienza della assistenza al padre morente:

Solo nella morte siamo riusciti a parlarci e capirci… forse anche a perdonarci, peccato non averlo fatto anche prima. La nostra storia forse sarebbe stata un’altra.

 

Le parole di Elena e Marta ci interrogano sulla preziosità del tempo del fine vita e sull’utilizzo di questo, che proprio nel confronto col limite della morte diviene urgente e impellente ma provoca forse inevitabilmente un pensiero sul rimpianto e sullo “spreco precedente” – su quello avrebbe potuto essere e non è stato. Il rimpianto è un contenuto che rimbalza nei racconti dei diversi protagonisti: dal malato ai familiari. La riparazione convive accanto al rimpianto per le occasioni perdute.

Quando le esperienze divengono trasformative si aprono gli auspici per il prosieguo della vita: auspici di non sprecare il tempo, di usare le occasioni vitali e sentire l’impegno a trovare le proprie parole per non lasciare sospesi e per vivere la propria vita con consapevolezza.

 

  1. Discussione dei risultati: Raccontarsi nel tempo del lutto

 

Il servizio di supporto al lutto, in continuità con l’assistenza in cure palliative, stabilisce una traiettoria di cura del caregiver e delle relazioni familiari che procede raccogliendo pensieri e vissuti, frammenti di ricordi e di esperienze, accogliendo lacrime, costruendo confronti con altri compagni di viaggio con storie simili (i gruppi di supporto al lutto), tracciando e “rammendando” talvolta trame lacerate e in ogni caso proponendo un percorso di assestamento, di supporto e di elaborazione, che questa indagine ci dimostra prezioso per coloro che lo hanno utilizzato.

Dopo le impellenze dell’agire del periodo dell’assistenza al malato, nel lutto il tempo improvvisamente vuoto chiede una dimensione di ricostruzione interna attraverso l’espressione dei vissuti emotivi con le parole.

Il servizio Faro-Dopo riconosce e onora quel tempo vuoto, consentendo di abitarlo e di farlo proprio, di riempirlo di contenuti necessari per poter proseguire nel proprio percorso di vita. La necessità di questo spazio emerge con forza nelle parole di Elena:

Non sarei mai stata in grado di raccontare questa storia, e probabilmente nemmeno di pensarla, se non fosse stato per il percorso che ho fatto in “Faro Dopo”. Mi sono rivolta a loro perché mi sono accorta di aver corso per quattro mesi, senza mai fermarmi, per tirare avanti tutto, investendo ogni energia senza prendere fiato nemmeno un secondo. Sapevo che il dolore era lì, in agguato da qualche parte. Sapevo di doverlo affrontare.

 

Il servizio di supporto al lutto della Fondazione Faro accoglie oltre duecento famiglie ogni anno con percorsi individuali e di gruppo, con iniziative associative e collettive che coinvolgono psicologi, volontari e altri operatori con competenze specifiche.

Grazie a questo servizio, accanto ai contenuti psicologici della perdita, si delineano anche i significati della relazione rappresentata dal defunto nella vita del proprio caro. Allo stesso tempo, se si allarga l’indagine alla storia del narratore, si scopre che l’esperienza vissuta si inscrive dentro un contesto che collega e svela trame nuove di significato. Questo dà l’avvio a quel processo trasformativo-evolutivo che diventa l’elaborazione verso nuove consapevolezze che portano a ridefinizioni di senso e a direzioni di nuovi percorsi.

Il lutto e il dolore che vi si lega non sono infatti soltanto processi mentali individuali, ma rappresentano eventi concreti e interiori che interferiscono – spesso profondamente – con l’identità dei soggetti coinvolti, con le relazioni in cui sono inseriti, con i ruoli che questi ricoprono all’interno della famiglia e di altri gruppi sociali. La perdita di una persona cara può rappresentare la distruzione del proprio mondo personale e sociale, determinando la necessità di una ricostruzione di sé e della propria vita quotidiana. Il potenziale trasformativo dell’esperienza del lutto (e prima ancora della malattia inguaribile di un proprio familiare) rendono centrale il tema del senso: cosa ha rappresentato quella persona per me? Cosa comporta la sua scomparsa oggi? Cosa significa vivere senza di lei/lui? E ancora, chi sono io e chi siamo noi (famiglia) senza di lei/lui?

Rispondere a queste e ad altre domande significa operare una ricostruzione biografica che incorpori l’esperienza della perdita nel nostro vissuto, personale e familiare. Tale ricostruzione, infatti, non avviene mai all’interno del vuoto sociale, ma può servirsi anche di cornici interpretative condivise, prodotte all’interno della relazione con coloro che hanno vissuto la medesima perdita.

  1. Conclusioni

I 22 ritratti familiari esaminati, qui presi in esame all’interno di traiettorie familiari ricorrenti, ci hanno consentito di approfondire i tanti modi “in cui le famiglie infelici soffrono” e la possibilità di utilizzare le biografie familiari per costruire dighe, contenimenti, ponti e nuove strade dentro le quali svolgere la cura delle relazioni e dei legami familiari, “oltre e accanto” alla cura dei sintomi del corpo del malato offeso dalla malattia. Quando le biografie familiari presentano delle interruzioni per i traumi o le difficoltà che ne hanno impedito gli adattamenti, l’impegno è quello di potenziare lo sforzo di comprensione allargando l’orizzonte di riferimento con l’utilizzo della biografia familiare come nuovo strumento di lavoro di gruppo: per arrivare ad un nuovo punto di vista, il più adattivo possibile, insieme. La riflessione che rimbalza tra noi operatori è relativa alla accurata costruzione di un lessico che non sia fatto solo di informazioni sulla cronaca dell’avanzamento e della inevitabilità della morte, ma che parli nella dimensione emotiva, affettiva ed esistenziale, dell’accompagnamento e della cura, in antagonismo al linguaggio bellico fatto di “armi”, “lotta”, di “coraggio” tipico delle fasi in cui la malattia è rappresentata come un nemico da combattere. È necessario, invece, confrontarsi per cercare parole, metafore e simboli che aiutino a integrare la sofferenza del morire dentro la traiettoria della vita e del suo significato fino alla fine.

La maturazione della competenza degli operatori (gli psicologi in primis e tutti gli altri) di Cure Palliative in “fatti umani” ci sintonizza con le considerazioni di Sonia Ambroset che auspica un allargamento di orizzonti. Il mondo delle Cure Palliative “è il mondo che dichiara come valori fondanti la cura globale della persona, la cura delle relazioni, la salvaguardia dei valori della dignità e della qualità della vita, il rapporto «laico» con il dolore e la sofferenza, l’integrazione delle professioni come metodo specifico di lavoro. Si tratta dunque di una cultura che, per essere promossa e consolidata, deve poter vedere i suoi rappresentanti (curanti professionisti e volontari dedicati) capaci di includere nella propria area conoscitiva tutte le possibili esperienze del morire, senza paura e con profonda saggezza”8.

Completare e integrare le competenze specificamente sanitarie con un’adesione agli aspetti di senso, attraverso il riconoscimento della specificità di ciascuna “infelicità”, è una dimensione di fondamentale importanza per personalizzare la cura e tenere accesa l’anima giovane e antica delle Cure Palliative.

 

Bibliografia

 

[1] Charon R. Medicina Narrativa. Raffaello Cortina Editore 2019: 1.

2 “Faro Dopo” è il nome del servizio di supporto al lutto che accoglie circa 200/240 familiari all’anno proponendo percorsi di supporto individuali e di gruppo, psicoterapie brevi, e iniziative di tipo associativo contro la solitudine e l’isolamento. Il servizio, oltre a psicologi e psicoterapeuti, prevede anche terapeuti dell’età evolutiva, educatori e consulenti al bisogno.

3 Davies DJ. Morte, Riti, Credenze. Torino: Paravia: 1996.

4 Ambroset S. Cure palliative, suicidio assistito, eutanasia: riflessioni per un confronto possibile. Rivista italiana di cure palliative 2020; 22: 233-238.

5 Spinsanti S. Pillole e parole. Rivista italiana di cure palliative 2019; 21: 182-184.

6 Valentine C. Bereavement narratives: Continuing bonds in the twenty-first century. 2008. Routledge.

7 Yalom I. D. Guarire d’amore. 2015 (ed. or. 1989). Milano: Raffaello Cortina Editore.

8 Ambroset S. Cure palliative, suicidio assistito, eutanasia: riflessioni per un confronto possibile. Rivista italiana di cure palliative 2020; 22: 233-238.

Crediti

Chiodino S, Seminara M, Rossero E. Le attribuzioni di senso nell’esperienza del caregiving e del lutto. La cura delle relazioni dentro la cornice delle biografie familiari. Riv It Cure Palliative 2023; 25(4): 225-232. doi 10.1726/4150.41483.
Copyright: Rivista Italiana di Cure Palliative, Il Pensiero Scientifico Editore s.r.l.

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divulgazione